Tratte dal libro "Juke Boxes", di Elisabetta e Paolo De Angelis, le introduzioni di Renzo ArboreRoberto D'AgostinoUgo NespoloAntonio Ricci
tutti felici proprietari di uno e più jukeboxes, ringraziandoli per aver aderito alla richiesta di raccontare il loro rapporto con queste "macchine sonore".
A seguire il capitolo iniziale relativo alla storia del juke box


Renzo Arbore

Il "mistero juke box" continua. Quale mistero? Ma diamine, quello di tutti noi, generazione "ragazzi del juke box" che, anche a distaza di trent'anni, ricchi di impianti hi-fi, piastre speciali, dischi compact, dischi laser, cassette "dat" telecomandi "chefannodituttocompresoservirtiuncaffèpiùomenocaricoasecondadelvolumedelbranochestaiascoltando", e di ogni altro ancora non sappiamo spiegarci perchè nel "juke box" la musica è semplicemente "più bella".
Eppure è "più bella". Ho sempre pensato, per la verità, da "bastian contrario" quale mi picco di essere, che non è "anche l'occhio che vuole la sua parte" come dicono superficialmente tutti, ma è "anche l'orecchio".
L'occhio, infatti, non può "anche" volere la sua parte, semplicemente perchè nel juke box la fa da padrone. Provate a non rimanere abbagliati e affascinati (e questo anche se collezionate raffinate consolles Luigi Quindici o mobili del settecento veneziano) dalla "rutilanza" (sostantivo di rutilante) dei colori spesso semoventi e altrettanto spesso cangianti delle plastichine, plastichette, plasticherie con cui è confezionato un juke box degli anni Quaranta. Provate a non rimanere incantati dalla "stellatività" (sostantivo di stellato) di un juke box anni Cinquanta, o dalla meravigliosa "cromaturità" (sostantivo di cromato, più efficace del pedestre cromatura) di un juke box anni Sessanta. Provateci.
Già, ma se avete comprato questo libro ci avete già provato.
E, visto che "anche l'orecchio vuole la sua parte", adesso compratevi pure il juke box. In carne e ossa. Pardon, in dischi e cassa.

Juke Box Renzo Arbore


Roberto D'Agostino


Juke Box Roberto Agostino

Attenti ai juke box. Nascondono un tesoro. O un tesoretto. O, semplicemente, qualcosa che si avvicina all'"estasi artificiale". Questi "scatoloni musicali" hanno rovesciato, infatti, quella celebre massima che recita così: "La forma segue la funzione". Mettetela sottosopra e avrete il segreto del loro successo. La funzione di metter in moto dischi è completamente succube della forma. Il design di un AMI, di un Rock-Ola, di un Wurlitzer - che una volta era classificato il massimo del cattivo gusto, ripugnante kitsch da McDonald - oggi, per effetto della civiltà post-moderna, corre sovente il rischio di diventare sinonimo di perfezione artistica. Sono oggetti "cordiali", d'uso quotidiano, che non mettono a disagio. Anzi, stimolano la fantasia ludica del marmocchio che è in noi. Ecco un giocattolone che sembra aiutare l'uomo ad ancorarsi alla propria qualità di essere dilettante - nel senso che si diletta -. Da qui la forte attrazione che "l'antiquariato precoce" ruotante intorno al juke box esercita sull'immaginario di un crescente numero di persone.
Quello "sputadischi" scatena vampate di rock, rigurgiti di Beatles, il bar sotto casa, la rotonda sul mare, i graffiti americani, la Coca e la pupa, Marlon Brando che fa "Il Selvaggio", Little Tony che fa "Il Coatto", e altre romantiche associazioni. E' così che un modesto manufatto per il tempo libero può in qualche modo riscattare il suo ruolo passivo esercitando una ambigua azione di seduzione. Gli oggetti, infatti, possono ribellarsi all'uomo, diventare "attivi", prenderlo per la vita, dimostrare che la sua idea di ordine, distanza dal passato e senso di bellezza è un mistero che non rivela mail il suo segreto finale.


Ugo Nespolo

I Righteous Brothers vengono fuori da lì, da questo scintillante monumento a colori variabili. Melodia imperfettamente umana dal fascino antistereofonico, antidigitale e antiqualcos'altro. 
Non c'è da spiegare. Il 1015 è in funzione e spezza il cuore.
Non serve neppure una luna in controluce, l'amante che ci pare, l'ottimismo possibile e quant'altro. E' lui, il juke-box che si modella sull'umore nostro, asseconda il nostro cotè mitologico, il bisogno di alone, i sogni senza soggetto, esalta i sottotoni, ci accultura senza preclusioni.
Rifiuto nel modo più categorico l'interpretazione bassamente citazionista, quella che ci vorrebbe imbambolati romanticoni alla ricerca del bel tempo che fu, ci presume indomabili nostalgici del non si sa bene cosa e ci precipita poi invariabilmente nell'oscuro e profondo pozzo del collezionismo accattone e ignorante.
Qui si rivendica senza mezzi termini un progetto intriso di cultura in sostituzione del detestabile pittoresco, del pulcioso mercato delle pulci, che indirizza la mente e il resto non a presunti miti dell'evasione ma ad una sorta di salvezza forse non accettabile nè possibile - alla quale io però ancora voglio credere.
E' atto di cultura, certo, ripensare all'America come la si è sognata, vista e vissuta anni or sono. I suoi luoghi comuni - innanzi tutto - insostituibili pilastri dell'immaginario popolare planetario, il cinema e i suoi divi, le mitiche città, le auto, un semplice viaggio in Greyhound, il presunto grande benessere, l'onnipotenza respirabile ma anche la sua cultura più profonda, il jazz, l'action painting, il trance cinema.
Crema dorata della golden age, queste scintillanti scatole sonore hanno nomi memorabili come Wurlitzer, Mills, Ami, Seeburg, Packard, Rock-Ola.
Sì, ecco, queste dream-boxes pretendo mi faccian pensare (se pensare devo) a questa tensione al possibile, a ciò che è vasto, esteso, realizzabile, avventuroso oggi e sempre.
Non mi riportano indietro a nessun titolo, non mi fanno sognare quello che non ho vissuto, non mi ipnotizzano nè mi conducono in un critico paradiso dei balocchi.
Piuttosto mi danno una grande lezione di ottimismo, un'enorme, inarrestabile pulsione verso il sogno realizzabile, non quindi verso un sogno nudo nè verso un pragmatismo bruto.
Sogno realizzabile, dunque, l'essenza della vita.


Juke Box Ugo Nespolo

Antonio Ricci


Juke Box Antonio Ricci

Nella saletta del bar il juke-box se ne stava silenzioso in un angolo, solo e maledetto. "faceva tappezzeria", come si diceva nei favolosi anni '60. Con il flipper invece ci si poteva accoppiare quasi sessualmente, un succedaneo per lenire pulsioni adolescenziali. Il flipper era più generoso, ti dava chances. Nella sempiterna lotta con il tilt, l'uomo era "faber fortunae suae": si vincevano palline e consumazioni. Intorno al calciobalilla, poi, si accendevano vere e proprie orge. Per dividere le spese si arrivava a giocare anche in otto, uno per manopola. Per recuperare le palline si mettevano i fazzoletti nelle buche delle porte o si bloccava la gettoniera con lo stecco del mottarello. Il juke-box no, era intoccabile, spietato e rigoroso: una selezione L. 50, tre selezioni L.100. E chi mette i soldi "sente" come tutti quelli che ascoltano a sbafo.
Per questo il juke-box in Liguria non ha mai avuto molto successo.
Funzionava solo d'estate grazie a qualche megalomane torinese o milanese. Allora la saletta improvvisamente si popolava, ondate migratorie di portoghesi giungevano anche dall'entroterra, pronte a sciamare per il contro-esodo non appena intuivano che stava sfumando l'ultima selezione.
Ora che posseggo un juke-box, non lo ascolto quasi mai. Mi piace invece guardarlo dentro, spiare la lunga teoria di cavi elettrici che si rincorrono e si intrecciano, alla ricerca dell'"anello che non tiene". E le canzoni? ......beh, quelle me le canto da solo.


La storia del juke box






Juke Box Wurlitzer





La Wurlitzer Company ebbe le sue modeste origini in una piccola camera al primo piano tra la Quarta Strada e Sycamore a Cincinnati, Ohio.
Il suo fondatore, Rudolp2h Wurlitzer, vi iniziò la sua attività nel 1856 investendo tutto ciò che aveva, cioè 700 dollari, nell'importazione dalla sua terra d'origine, la Sassonia, du strumenti musicali.
In questo modo, riuscì ad affermarsi come importatore di strumenti di ottima qualità e il primo riconoscimento arrivò all'inizio della Guerra Civile con la richiesta da parte del Governo di una fornitura di tamburi e trombe per l'esercito dell'Unione.






Alla fine della guerra, Rudolph Wurlitzer era ormai diventato il più importante produttore di strumenti musicali, così che nel 1880 si potè anche cimentare, con l'aiuto del fratello minore Anton, nella produzione di pianoforti; nel 1901 il primo pianoforte a moneta, ovviamente marca Wurlitzer, vinse la medaglia d'oro all'Esposizione Panamericana.

juke box Rudolph Wurlitzer









Ma lo strumento che rese Rudolph Wurlitzer universalmente famoso fu il "Mighty Wurlitzer", un organo a canne costruito dalla nuova fabbrica di North Tonawanda vicino a Buffalo, nello stato di New York.





Già nel 1909 per tutti il nome Wurlitzer significava musica, ma negli ambienti finanziari era anche sinonimo di affidabilità e solidità economica, e gli impianti di North Tonawanda erano già valutati un milione di dollari.

juke box Mighty Wurlitzer


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